I
Nuvole basse, sporche, cariche, a volo radente, premono sullo sterno come sonno agitato. Non so svegliarmi, annaspando dentro di me in cerca d’aria. La luce nuvolosa ferisce la vista, mi stanca. Tengo gli occhi serrati e le tapparelle abbassate ma non riesco a svegliarmi. La memoria esala l’immagine del cubo grigiastro dove vivo con un uomo che non conosco e cammino su mattonelle a scacchiera: untuosa distesa di bianco e nero. Annuso la paura rancida dell’uomo nel suo sudore, a volte si avvicina a me. So che mi spia, lo sento quando mi raschia il viso con la sua guancia rasata male. Le sue mani febbricitanti cercano la mia intimità; calde e ossute, ma è uno strano calore, lo odio!, la febbre che le consuma è malattia. Da quanto cerco di sfuggirgli? di notte ascolto il suo rantolo, poi si sveglia, mi mostra le sue ferite, le esibisce. Credo che provi piacere per lo schifo che suscitano in me, le mostra apposta. Desidero il sole, l’abbraccio di un essere umano vivo, con i piedi immersi nell’acqua di mare, qui, invece, il fiato si ghiaccia e disegno stelle, pezzi di cielo, sul vetro della cucina. Grido ti amo, da sola, e sono ebbra di freddo. Mi tocco tra le cosce per sentire il calore di un essere umano che mi desideri. Forse sono solo stanca per il vino, il vino rosso che macchia la tovaglia di lino ruvido con gli stessi ricordi stinti di ogni volta: nel buio mi racconto favole. Racconti come macchie scure che colorano le mie risate scialbe di disagio: siamo sempre in troppi a questo tavolo, con l’imbarazzo di ritrovarci stranieri tra stoviglie straniere. Abbiamo imparato dai nostri padri a stare a tavola, se non al mondo, e i nostri figli impareranno da noi. Troppi morti e troppo sangue attorno a questo tavolo. Sto impazzendo. Parlo da sola.
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